In ricordo di Antonio
Caldarella
La
fragilità di vivere
discorso tenuto da Orazio Parisi sabato 23 maggio 2009 nella Sala Gagliardi di Noto in occasione di Poeticamente vivo - Omaggio ad Antonio Caldarella
Ci
sono momenti della vita in cui incontriamo il silenzio. Ancora oggi il
silenzio, nonostante i trilli frenetici dei telefonini, ci piomba addosso
all'improvviso e, il più delle volte, ci atterrisce. Il silenzio: questa parola
che crediamo a noi familiare, quando si palesa veramente, ci lascia sbigottiti,
e ci rendiamo subito conto di non saperne nulla. Come lo Zarathustra di
Nietzsche, esclamiamo: “Mai avevo udito un tale silenzio attorno a me”!
Ma
perché il silenzio ci spaventa? Forse perché la circostanza da cui esso
scaturisce è spiacevole? Forse. O forse perché non troviamo le parole –
parole sensate? È certamente così. Il più delle volte, comunque, a questa
domanda non segue alcuna risposta. Il silenzio, come si dice, ci lascia muti.
Ma, d'altro canto, è proprio il silenzio a 'dirci' quanto contano le parole
nella nostra vita. E allora, visto sotto questo profilo, il silenzio ci stimola
a riflettere e, quindi, ci mette in attesa... di qualcosa; di qualcuno; di
qualche parola. E, quando apprendiamo che quel qualcuno non c'è più, cos'altro
possiamo desiderare, se non qualche parola che rompa il silenzio attorno a lui
e tenga vivo il suo ricordo?
Di
Antonio Caldarella, oltretutto, non potremmo cercare altro che l'ágalma,
la preziosa ágalma, scrigno
dell'enigma, del desiderio e della stessa informe illusione, con cui
egli è riuscito, nonostante tutto, a 'contra-stare' la vita; cioè, la sua parola
poetica. E quando troviamo questa parola, leggendo le sue poesie – le
cose più preziose che Antonio ha avuto – il silenzio diviene un limite
paradossale. Paradossale, per due motivi. Il primo è che il silenzio non
s'addice a un poeta. E persino alla stessa vita di Antonio, interamente
sostenuta dal linguaggio; poiché egli ha creduto veramente, e
incondizionatamente, come ha scritto, di essere “dentro un film / dentro un
libro / dentro un quadro”. E ha creduto fermamente che la realtà non sarebbe 'reale' – perché tutto ciò che è nella realtà è
riproducibile all'infinito nel gioco ripetitivo di nascita/morte, eterno
ritorno dell'uguale – se in essa non albergasse da sempre il mondo del
'simbolico', il solo a imprimere su ogni cosa il sigillo dell'unicità, emblema
perfetto del dramma e del pathos vitale.
Il
secondo motivo riguarda direttamente la circostanza – improvvisa,
shoccante, agghiacciante – della sua scomparsa. Il dolore ci rende ebeti, afasici. Tuttavia, non
lascia a lungo in silenzio; perché è comunque una parola, magari una parola
paradossale, in quanto è una parola, per così dire, 'oltre il linguaggio', una
parola che viene dopo tutte le possibilità espressive delle parole, ma è la parola del sentire profondo, del pathos. E, subito dopo il turbine di
stordimento e silenzio in cui immediatamente trascina, comincia a dire
qualcosa.
Cosa
dice? Può non dire nulla... O può magari dire qualcosa di cui molti non
riescono, purtroppo, a sentire altro che gemiti e indistinti rumori. Se il
dolore sorge dagli oscuri e insondabili abissi del sentimento, occorre avere
orecchie di poeta per potere bene ascoltare; e comprendere...
L'amigdala
di Antonio era di quel livello superiore, capace di 'alfabetizzare' le
emozioni, e non solo di conservarne i ricordi, come tutti, nel tragico silenzio
dell'in-comunicabilità. Per Antonio la poesia non è un'attività letteraria, è,
per dirla con Wallace Stevens, “un'attività vitale. Per un vero poeta la sua
poesia è la stessa cosa della sua vita”, “La poesia è una forza distruttiva”.
In Antonio la vita si mostra sempre con il volto, poetico e surreale, del
'desiderio'. Desiderio di cosa? (Si badi bene! Come per il silenzio, il
desiderio sembra a noi talmente familiare che pensiamo di padroneggiarne
facilmente il senso; ma, come titola un libro di Fulvio Carmagnola sulle figure
di Agalma da Platone a Lacan, “Il desiderio non è una cosa semplice”, e
non è cosa semplice proprio per Antonio, come vedremo). “Il cielo/mare –
scrive Antonio – è adesso davanti a me. Posso vederlo dal divano su cui
sono solito leggere la sera, e cercarlo in terra, dai racconti di coloro che lo
videro e ce ne fecero dono... l'oro di Montezuma, tesoro dei desideranti
– come diceva A. Breton – nel suo Amour fou”.
Questo,
che appartiene agli ultimi scritti di Antonio, generosamente pubblicati in un catalogo
d'arte, non è un dettaglio della sua opera – o della sua personalità. È
tutto se stesso. E non è casuale la citazione di Breton; perché Antonio, per
tutta la vita, non ha fatto, e detto, altro che quanto ha raccomandato Breton
nel suo Amour fou: “Si tratta di non lasciare, dietro di sé, che
i sentieri del desiderio si aggroviglino. Al diavolo ogni prigionia,
fosse anche in nome dell'utilità universale, fosse anche nei giardini di pietre
preziose di Montezuma! Ancora oggi, se mi aspetto qualcosa è soltanto dalla mia
disponibilità, da questa sete di vagare incontro a tutto; e sono certo
che essa mi mantiene in comunicazione misteriosa con gli altri esseri
disponibili, come se fossimo chiamati da un momento all'altro a riunirci. Mi
piacerebbe che la mia vita non lasciasse dietro di sé altro mormorio che una
canzone di veglia, di una canzone per ingannare l'attesa. Indipendentemente da
ciò che sopraggiunge, o non sopraggiunge, l'attesa è in sé meravigliosa”.
Scrive
il filosofo Alain Badiou, a commento di questo passo di Breton: “La figura di
colui che veglia è una delle grandi figure artistiche del secolo. La vedetta è
colui per il quale non esiste altro che l'intensità dell'agguato, e dunque
colui per il quale l'ombra e la preda si fondono in un unico lampo. La tesi
della veglia, o dell'attesa, è che non si può conservare il reale altro che
restando indifferenti a ciò che sopraggiunge o non sopraggiunge. È una delle
principali tesi del secolo: l'attesa è una virtù cardinale perché è la sola
forma esistente di indifferenza intensa.” (A. Badiou, “Il secolo”, Feltrinelli,
1998, p. 34).
Le
due citazioni, di Breton e di Badiou, mi colpiscono molto. Attraverso queste
poche ma essenziali righe vedo scorrere davanti a me tutta la vita di Antonio,
almeno come l'ho conosciuta io: con la sua “sete di vagare incontro a
tutto”, come scrive Breton, e con la sua tenacia, persino caparbietà, nel voler
ancorare i suoi sogni alla realtà; a qualunque costo, anche a costo di rimanere
indifferente “a ciò che sopraggiunge o non sopraggiunge”, come afferma Badiou.
Con la sua giocosa e dolce ilarità e con la sua, a volte pungente a volte
malinconica, ironia – ma anche con la sua arguzia nell'accettare
apparentemente quella 'leggerezza' della vita che in effetti non era affatto leggera,
ma leggera diveniva soltanto nella trasfigurazione della sua arte – egli
non ha voluto negare la realtà; al contrario, ha preteso più realtà. Ha
preteso che anche i sogni facessero parte, e legittimamente, della vita reale.
Ha reclamato, con tutto se stesso, la possibilità di sognare a occhi aperti, di
giorno e non solo di notte. E ha mostrato, e dimostrato, come diceva E. A. Poe,
che chi sogna di giorno sa più cose di chi sogna solo di notte. E questa
pretesa, tra l'altro l'unica pretesa della sua vita, è stata per lui
imprescindibile. Anche a costo di essere assassinato dai suoi stessi versi,
così come Montezuma fu assassinato con oro fuso colato in gola.
Questo
scritto di Antonio si può considerare il suo testamento spirituale, una volta
raggiunta la consapevolezza di aver 'giocato' per tutta la vita, come scrive
egregiamente Nadia Fusini riguardo alla poetica di Wallace Stevens, con
“l'alfabeto che uccide”: “L'alfabeto – che l'uomo per vivere debba
giocare con tale pericoloso elemento, non è questo (per Stevens – e io
aggiungo, per Antonio Caldarella) il problema?”.
Antonio
ha avuto, dunque, piena consapevolezza di essere stato uno tra coloro che poetano,
cioè tra quelli che con la scrittura sostengono il vuoto della vita. Un vuoto,
sì; ma un vuoto che non è propriamente vuoto, come egli subito dopo scrive, se
in esso, e con esso, come sempre accade, sia a chi poeta sia a chi vive,
si scommette e si combatte per tutta la vita: “Il pittore appartiene a questi
esseri desideranti. Anch'io vi appartengo. L'ho riconosciuto dall'ansia che
caratterizza il cammino degli esseri desideranti e che trova pace soltanto
nello scontro, corpo a corpo con la tela; così come io sono solito combattere
con il foglio. Siamo compagni d'arme, della comune ricerca della visione di
quell'ambìto cielo/mare, cercato nelle ventose passeggiate mattutine e nel
silenzio della calma piatta, foglio e tela della comunione serena con un caffè
dopo il segno e con un tè dopo il sogno. Il pittore adesso mi fa ammirare i
suoi quadri e conclude con una smorfia che recita: Più di questo non so fare.
Io gli leggo una mia pagina e dico: Più di questo non sappiamo fare.
Quindi sereni ci avviamo verso l'orizzonte, dove mare e cielo s'incontrano,
dove acqua e aria hanno colori cangianti e desiderosi di spleen, quali
un mare ribaltato, dipinto e scritto da un sogno”.
Antonio
capovolge il concetto di spleen: l'angoscia della vita non contamina
l'arte, la poesia, come in Baudelaire, proprio perché ogni cosa, egli dice, può
essere 'ribaltata', non nel, ma dal sogno, cioè dall'essere
pienamente poeta e, quindi, 'indifferente' a tutto ciò che non è arte. Tutt'al
più, il poeta può 'vivere' la dimensione del breakdown, dell'inciampo;
'più di questo non sa fare': inciampa nella vita, riconoscendo che il desiderio
è proprio l'elemento che allo stesso tempo dissimula e smaschera il vuoto della
vita. E, aderendo al messaggio del surrealista Breton, canta in questo modo la
sua 'canzone'; quella stessa canzone con cui ha ingannato l'attesa. Non
c'è migliore inganno di questo: del sostenere la vita solo con il
fragile sostegno della poesia. Strana fragilità, però! Se Antonio riesce con
essa a urlarci negli occhi e prenderci a schiaffi per la nostra misera, e a
volte tragica, inconsapevolezza: “L'urlo dei sassi neri del vulcano / arriva
dall'acqua lenta dei secoli. / Il fragore della natura / è uno schiaffo
fortissimo. / Mentre inciampo nei tuoi occhi, / mi chiedo, / se riuscirò mai a
portarti dove vorrei / e magari, conservare una tua foto / nella cornice d'un leggìo.
/ Vorrei parlarti di certe stelle cadute, / tra un sorriso / e una nenia. /
Anche di alcune lune scadute, / nell'attesa di un bacio. / Il mio urlo rompe il
vetro di una lacrima.”.
Mi
manca l'urlo di Antonio! Quell'urlo fragile ma capace di frantumare
meravigliosamente le lacrime 'vetrificate' di tutti coloro che non conoscono il
‘rimedio’ a un'esistenza che non persuade di nulla; che, un bel giorno,
all'improvviso, si ritrovano con una solitudine raggelante, assurda; una
solitudine, ancor di più, che non lascia nemmeno soli con se stessi, ma soli
perfino senza di sé. Quella stessa solitudine che, all'improvviso, sorprende
tutti noi sull'orlo di quell'abisso oscuro in cui siamo destinati un giorno,
qualche giorno impossibile, come direbbe Valery, a sprofondare: l'abisso oscuro
del silenzio.
Ma
ancora qui, come a sorprenderci, Antonio ci urla in viso, gioiosamente, il
‘rimedio’, senza nessuna pretesa, senza nessuna consolazione: “C'è sempre un giorno – scrive –
in cui qualcosa ha fine / e splendidamente, altro inizia, / ti sorride dietro
una tenda / ed attraverso lei / ti sfiora e poi ti tocca / leggero e forte. / È
far l'amore con un'onda di stoffa. / Ma tu sai che ti si svelerà / nell'attimo
in cui la luce / riflessa dai tuoi seni / ti bacerà gli occhi stanchi / e
aperti, dilatati nell'amore primo. / C'è sempre un giorno che sembra notte e si
fa giorno. / C'è sempre una notte che sembra giorno / e lo è. / Splendidamente,
altro inizia.”.
E
il ‘rimedio’ è sempre uguale: il desiderio della poesia, il componimento,
l'opera d'arte: la più sublime tra tutte le opere dell'uomo, perché le
comprende tutte, e tutte rende degne. Perché dà senso a tutto ciò che
della realtà appare vuoto, incomprensibile, assurdo. Con essa perde
d'importanza tutto ciò che è fine, finito; diviene invece splendido tutto
quanto è inizio, cioè tutto quel che opera: l'opera è sempre 'in opera'.
L'opera certamente non scongiura la fine, l'inevitabile fine, di tutto, di
tutti. L'opera è semplicemente, e splendidamente, indifferente alla fine.
L'opera reclama, en abyme, che la notte sembri giorno; e lo è, ci
dice Antonio. Con l'opera, tramite l'opera... solo con l'opera non può
esserci notte, ossia non può non venire 'in luce', splendidamente appunto, tutto quel che della vita è oscuro, vuoto, incomprensibile, assurdo... notte. L'Arte, solo l'incanto dell'arte (della pittura, della poesia,
della musica...), cancella il senso della morte. In questa sua 'affezione'
all'Arte, Antonio mostra il suo aspetto, per così dire, spirituale, in
quanto per lui l'opera d'arte diviene la testimonianza che l'indifferenza alla o della vita ha in essa un limite pressoché assoluto; come a dire: la
morte è il limite della vita in sé, non della vita dell'opera, perché l'opera
d'arte non muore mai.
Perché,
allora, abbiamo così tanto timore della morte? Perché la morte è l'unica vera
minaccia alla nostra identità: perché non possiamo appropriarcene; perché
nessun 'io', davanti alla morte, può dire “io”. Solo la morte ci rende estranei
a noi stessi: non siamo noi i padroni della morte, della nostra stessa morte.
Epicuro diceva che quando ci siamo noi, la morte non c'è, e quando c'è la
morte, noi non ci siamo. Questo in fondo significa anche che la morte non sta
di fronte a noi, sta già alle nostre spalle; essa è la misura della
nostra 'autoestraneità': siamo stranieri a noi stessi, la nostra identità non è
altro, come sostiene Giacomo Marramao, che la 'medietà' del tempo che, nel
momento stesso in cui diciamo “io”, ci ha già travolti; l’identità è in effetti
un'illusione, così come lo è il possesso, il possedere. Emblematico è il fatto
che non possediamo nemmeno l'amico. L'amico, diceva sant'Agostino, che è la
persona più vicina a noi, è allo stesso tempo incommensurabilmente distante da
noi: il mio amico, in realtà, non è 'mio'. Come dice Antonio in una
bellissima poesia, riecheggiando nel titolo una canzone di Fabrizio De Andrè,
siamo tutti “amici fragili”:
“Sì,
sono il tuo amico fragile, / quello per cui ti preoccupi / quando non hai di
meglio da fare; / quello per cui stai in pensiero, / senza pensare, e da cui ti
aspetti / una morte dolce, leale, o che almeno / tu non sia impegnato / il
giorno del funerale. / Sono il tuo amico fragile, / specchio della tua deriva,
/ scivolo della tua caduta, / urlo del tuo silenzio. / Guardami negli occhi! /
Sì, sono il tuo amico fragile, / quello di cristallo, di vetro soffiato, /
quello a cui attraverso vedi tutto. / L'hai scampata bella, / avendo un amico
fragile come me! / La musica, l'arte e la poesia / purtroppo nascono da un disagio
/ e si nutrono degli amici fragili, / quelli come noi, che sinceramente /
possono anche, o assolutamente / fare a meno di te; perché, sì!, / sei tu il
mio amico fragile, / perché, sì!, sei tu la mia amica fragile. / Ti bacio,
perché ignori la mia forza / e non conosci alba e tramonto / e non hai mai
risalite, cadendo”.
Per
il poeta, fragile è la vita, fragile è il vivere la vita, ma fragile è anche il mostrare la pur evidente fragilità di ogni cosa, perché questo compito è
della poesia, dell'arte, e la poesia e l'arte sono solo immaginazione, niente
di più che pura immaginazione: il desiderio, d'altronde, è solo desiderio, non
è soddisfazione; il desiderio dona l'opera, ma è un dono eccessivo, è un dono
di qualcosa che non si possiede, perché l'opera, ripeto, è come la vita, sempre
'in opera', non soddisfa mai. Ecco perché, purtroppo egli dice, la musica,
l'arte e la poesia nascono da un disagio: è il disagio di esser parte di
questo mondo, di appartenere alla realtà della vita che rinnega l'immaginazione
perché disconosce la sua stessa vacuità. Ma, proprio perché, nonostante tutto,
in questa vita c'è anche il poeta, l'assenza di immaginazione - per dirla con Stevens - doveva
tuttavia essere immaginata. E di ciò dobbiamo ringraziare anche Antonio,
per sempre! In un'intervista, Nadia Fusini ha detto: “Per me gli scrittori non
sono eroi di un Pantheon che sacralizza il successo: sono creature che hanno
conosciuto spesso in vita il fallimento, patito dolori e sventure, e che
testimoniano dell'unica immortalità in cui credo. Quella dell'opera”.
Orazio Parisi
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