(da https://plumvillage.org/news/in-memory-of-thay-phap-y/)
Era un insegnante per tutti noi, il nostro fratello maggiore, il nostro "Venerabile Thich Chan Phap Y" e "Papi" per molti. Era un personaggio colorato, un membro impegnato appassionatamente del sangha, profondamente impegnato a Thay e alla comunità nei suoi 14 anni di fratellanza nel villaggio di Plum. Bhikshu Thich Chan Phap Y Thay Phap Y, (il suo nome significa “Vera Mente Dharma”), aveva 76 anni e era stato malato per molti anni, ma aveva continuato a partecipare pienamente alla nostra vita monastica, alle visite didattiche e ai 90 giorni di Ritiro invernale. Aveva avuto alcune settimane di cattiva salute e non aveva mangiato bene. Venerdì mattina ha cominciato a provare difficoltà respiratorie e i suoi fratelli si sono tenuti accanto a lui nella sua stanza. Ha avuto insufficienza cardiaca mentre è stato tenuto nelle braccia dei suoi fratelli e il suo respiro si è fermato. I servizi di ambulanza arrivarono alcuni minuti dopo; i loro tentativi di risuscitare non sono riusciti.
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Un probabile Diario della Memoria *** Questo non è un diario, come usualmente s'intende, ed è destinato
alla lettura di chiunque voglia leggerlo con distacco e senza pretenzioni
critiche. Ma soprattutto è destinato a me stesso. In realtà mi sto fabbricando
una sorta di specchio per seguire da una prossimità immediata l'espandersi
delle mie rughe. Sin da ragazzo ho rifiutato di tenere un diario poiché mi
bastava scrivere articoli per un quotidiano, poesie e racconti. Scrivevo almeno
due o tre ore al giorno lasciando il resto del mio tempo alla lettura e allo
studio per quanto non facessi differenza fra le due attività. Leggevo molta
filosofia, storia e quella che allora si chiamava etnologia. Ero
entusiasticamente coinvolto in attività politiche.
Mi accompagna in questa decisione
di trascrivere una memoria per me stesso la lettura di alcuni libretti di
Schopenhauer scritti in tarda età. Al liceo era un autore ostico e, dopo, mi fu
sempre difficile digerire le definitive asserzioni di questo grande pessimista
che tale, a guardare la sua dorata vecchiaia, veramente non fu. Molti anni
dopo, inoltrandomi nelle selve intricate del Buddismo, mi venne l'idea balzana
di raffigurarmelo nelle vesti di un retrogrado monaco Theravadin drogato dal concetto
di sofferenza come inalienabile verità universale. Se la sarebbe cavata senza
il suo circondario di estetiche figuranti? Infatti conosceva la gioia.
Amo tuttavia la sua indiscutibile
saggezza, il suo sottile sense of humor,
il suo spirito immensamente percettivo; gli invio la mia energia di gratitudine.
Imbevuto di materialismo
marxiano, di eudemonismo epicureo e di Spinoza, sono arrivato a comprendere di
nuova luce, e ad amare, Nietzsche, un altro falsificato dalle ideologie
dominanti. Ritorno a un amore indesiderato che ha per nome Platone, spinto
anche qui da altri quali Alain Badiou e Roger Penrose; mi aggiro anche nei
dintorni di una ripetuta analisi di Hobbes e di Carl Schmitt: il passo del
granchio della senilità? No, ne sono certo, ma una riflessione piuttosto libera
dalle emozioni degenerative dell'età giovanile quando tutto ciò che non era
colorato di rosso, doveva necessariamente essere nero: un manicheismo tanto
assurdo quanto imbecille. Erano gli anni delle rivoluzioni di petto o meglio
della fede inconsulta nella rivoluzione armata permanente. Gli eroi inspiratori
avevano i nomi esotici di Mao Zedong, Ho Chi Minh e Che Guevara. Il concetto di
compassione ci era alieno e ci bruciammo l'esistenza, la migliore gioventù,
come qualcuno la definì, sul fuoco inquinante delle ideologie, anzi dell'Ideologia.
Pasolini lucidamente ne comprese l'infernale pericolo ma non fu ascoltato. Restò
coerente, fino alla fine, Albert Camus.
Di Guevara ritenemmo il
misticismo rivoluzionario senza tuttavia comprendere i due fattori fondamentali
della sua azione: primo, in positivo, che l'amore, e soltanto l'amore, nutre un
vero spirito rivoluzionario; secondo, in non positivo, la grande umanità che ha
detto basta! Era una grandissima illusione di un idealismo assolutamente
astratto. La grande umanità in rivolta non è mai esistita, né ancora oggi
esiste; qualcuno tenta di rinnovarne il mito chiamandola moltitudine, un
termine ancora più fuorviante poiché esso non definisce alcuna entità reale. Non
so se Spinoza oggi userebbe ancora codesto termine. Oggi l'unica moltitudine
esistente, piatta e anonima, è quella che alimenta il flusso umano dei
supermercati, dei consumatori di false informazioni televisive e dei surfers
d'Internet; mi si dice che Facebook è in linea d'arrivo al traguardo della
globalizzazione delle fughe. A
questa massa amorfa di bipedi manca il minimo senso di compassione e di
autocompassione, e quello di amore come pratica portante dell'interconnessione,
dell'entanglement delle coscienze.
Affogammo tutti, almeno quelli
della mia generazione e della seguente, nell'oceano di quella grande illusione.
Oggi, nel piacevole corollario della mia età e a due passi dal dire l'addio definitivo ai miei libri, sento il bisogno di esternare anche i miei ultimi desideri che non sono senili ma l'espressione di una forte volontà di realizzare un sistema di vita comunitaria radicato in convinzioni profonde spoglie di ogni ideologia, anche non politica, di falso spiritualismo, d'iniquo misticismo e pertanto gravido di ascetismo e di rinuncia. Sarò più preciso nei giorni a venire, secondo gli umori del momento; voglio prima parlare del mio stato presente e delle cause che l'hanno determinato. Ne parlerò per metafore e per immaginazione narrativa. Parlerò anche di mediocrità e di mendicità mentale ovvero dell'abdicazione dalla morale. Tutto per la grande soddisfazione egoistica dell'immagine che lo specchio mi riflette. *** Gli stivali di gomma made in China s'ingolfano nella melma di creta e neve mentre tento di arrancare questa specie di collina d'argilla e calcare fitta di pini e di querce atrofizzate. Attorno, vigneti a vastità d'orizzonte. Corvi e falchi disegnano cerchi nell'aria apblankemente senza scopo, solo per gioco. Forse gli uccelli sanno liberarsi per poco dall'utilitarismo della caccia o forse è solo un esercizio per i muscoli delle ali. Ne seguo il volo per qualche istante, poi abbandono per non perdermi nella cabala aviaria. Gli odori della terra intrisa di pioggia, suolo fangoso che macera foglie autunnali, impregnano l'aria di fine dicembre, la satura, la rende palpabile, viva. In quest'aria solida di freddo cerbiatti sgusciano fra le vigne defoliate in fuga da altre entità armate di fucili. La vita ha senso solo per lo stomaco. Tutto ciò che si muove è buono da mangiare recitavano gli antichi scritti indiani post upanishad, quando l'haimsa venne, con insipienza quasi cattolica, sublimata lapidariamente con uccidere per il sacrificio non è uccidere. Entro nella famigerata Legge di Manu ma ne esco subito poiché oggi la violenza ha un'altra faccia, un volto mobile che si adatta a tutte le situazioni ma che, almeno per quanto riguarda gli animali, è stata sublimata dal consumismo forzato di carne. L'abbattimento industriale di milioni di vitelli, capre, cavalli e altro non può essere considerato violenza da chi ne consuma la carne né da chi vorrebbe consumarla, ma non può. Arrivo alla mia stanza, mi ripulisco e siedo dopo avere preparato un tè verde giapponese, una delle mie tante debolezze, davanti alla porta finestra. Concentro la mia attenzioni sugli alberi, povere querce rosse anchilosate, sull'orizzonte visibile a segmenti di grigio fra i rami e inizio la mia meditazione del mattino. È la settimana feroce dell'anno,
quella dedicata all'imbestiamento consumistico, i giorni che vanno da Natale a
capodanno. Sono felice di essere libero, sono felice del silenzio grazie
all'assenza dei miei fratelli che, in virtù della loro giovane età, se ne stanno
fuori dalla residenza a gioirsela con palle e palloni da football e rugby. Ci
deve essere qualche artista fra gli ospiti, ho visto una statua di neve quasi
pulita del Buddha in samadhi, copia perfetta di quella in gesso nel giardino
dei loti. Non amo le statue. Socchiudo gli occhi e ricordo le fiaccolate in corsa
per la campagna, ero alto una virgola ma la memoria infantile è di buona
pianta. Si celebrava, chiamandolo con altro nome perché quello originale era
dimenticato da oltre due millenni, il solstizio d'inverno, la grande festa
della nostra più antica civiltà mediterranea intrisa di mitologia e di
superstizioni, una festa pagana cioè contadina e quindi semplice, derubataci
dall'avvento di un'altra mitologia altrettanto gravida di superstizioni ma non
più libera e semplice e non più pagana cioè villica ma cittadina e di potere.
Mi riscopro cantore di un canto silenzioso ma non meno possente della voce.
Canto e percepisco un istinto di commozione che però non si manifesta, canto a
Persefone, Demetra, Kore, canto a tutti i miei antenati scalzi coltivatori, e amanti
nel senso fisiologico del termine, della terra. Una febbriciattola di etica mi
si sbrina sulla pelle, oggi quando la vita è rappresentazione simbolica di se
stessa identificata con bisogni materiali e ideologici, ibridizzati d'iniezione
mercantile. La mia etica è Zen piantata su fondazioni solide, anzi solidissime,
costruite da Siddharda Gautama, Huang Po, Mo Tzu, Lin Chi, Nhat Hanh e dai miei
antenati diretti Epicuro, Lucrezio e Spinoza. Un certo debito lo riconosco agli
Stoici, Plutarco almeno. Un'etica che mi consente di rifiutare sdegnosamente,
quantunque con compassione, i compromessi che tendono a giustificare, quindi
accettare, le più disumane aggregazioni di elementi ludici e alienazioni. Nel
vasto mercato del consumismo sia esso alimentare che politico. Poiché c'è un
consumismo politico che della politica, intesa come codice morale della
società, nulla ha se non l'aspetto drammaticamente vaudeville, guignol, che
tuttavia gli pertiene. Ciò che si consuma in realtà, come contorno di un piatto
freddo, è un cocktail di pseudo informazione, dicasi anche la tragedia della
non comunicazione, e gli aspetti bling-bling, la facciata telenovela che tanto
affascina le società ridotte ad agglomerazioni di zombi con materia molle
odorante di lavanderia pubblica, quella a gettoni.
VIAGGIO IN SICANIA
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La floriterapia è un metodo di cura molto conosciuto e largamente utilizzato da più di cinquant'anni, fondato su un sistema originale progettato dal medico inglese Edward Bachi. Per il dottor Bach determinati stati d'animo provocano disagi interiori che possono essere curati con l'aiuto delle piante. Bach ha individuato 38 rimedi naturali, derivati dai fiori, che guariscono altrettanti malesseri psicologici e ha messo in pratica il motto: mens sana in corpore sano.In queste pagine troverete schede dedicate a ogni singola pianta con l'indicazione del disturbo su cui si può agire, come questo si manifesta e quale equilibrio si cerca di raggiungere. Vengono, inoltre, riportate precise indicazioni circa il dosaggio dei rimedi, la loro possibile combinazione e il tempo di utilizzo più adatto per percepirne i benefici. |
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