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nuovoStella Giovanni, Una Vita. Opere (1989-2003) (Libreria Editrice Urso, Collana Omnia 1), 2003, 16°, pagine 1312, € 22,00 – 978-88-6954-255-8

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Una Vita
L’ultima opera di Giovanni Stella, Una Vita (Libreria Editrice Urso, Avola, 003), non ha bisogno di presentazioni per chi conosce l’autore, le sue precedenti iniziative letterarie e, soprattutto, l’uomo. Il senso dell’odierno, immane lavoro reca un sentimento intuibile già dalle prime pagine.
L’opera racchiude tutte le precedenti e ne contiene delle inedite, sia in forma poetica sia in prosa, con note critiche di autori vari in appendice. Un lavoro immane, per l’appunto.
Dal canto della poesia Stella rivela una personalità sensibile, capace di cogliere dalla realtà la sua musa ispiratrice. L’animo poetico si enfatizza e ne resta influenzato sotto le spinte propulsive del realismo quotidiano, mentre i significati allegorici ne costituiscono l’essenza principale. La poesia diventa così una realizzazione dell’animo dove i componimenti vengono alla luce con la sensibilità del cuore piuttosto che con la superbia dell’intelletto. La predisposizione d’animo, funzionale al concepimento poetico, si materializza in un significato che porta il lettore ai tempi di innamorata gioventù. Ma la personalità poetica di Stella è intrisa anche di significati complessi che riflettono la sua stessa dimensione di uomo: la vita come inizio, il modo di viverla, la morte come fine, come ignoto, il mondo siciliano e la stessa Sicilia, appaiono come costanti nelle sue opere.
Non di rado è ravvisabile una punta di pessimismo: forse non si esagera nell’affermare che siamo quasi in presenza di un pessimismo leopardiano cagionato, chiaramente, da eventi e sentimenti esistenziali differenti.
Nelle opere in prosa, invece, siamo in presenza, tra le altre cose, di una dolce nostalgia del passato dove più sentiti erano i valori, basati sulla normale quotidianità di paese: nel “Museo della memoria” (opera inedita), per empio, è tangibile questo sentimento. È un invito al ritorno a quelle piccole gesta che facevano l’identità dei luoghi e delle persone che li vivevano; ma al tempo stesso vuole essere una critica all’odierna società in cui proprio quelle piccole cose si sono smarrite e con esse l’identità della comunità.
L’opera in prosa presenta anche una peculiarità intrinseca: contiene forse un inconsapevole contenuto antropologico, credo importante per chi volesse tra qualche ventennio e più intraprendere studi sul modo di vivere dei siciliani e degli avolesi in particolare.
Complessivamente Stella risente della influenza di Gesualdo Bufalino, suo insigne e preferito autore. Al pari del comisano scrittore e poeta, anch’egli mette in discussione tematiche di rilievo: la memoria, la Vita e la Morte, l’esistenza o meno di Dio, anche se in Stella quest’ultimo elemento, ancorché riscontrabile nella complessità dell’opera, è forse meno manifesto; gli ossimori, poi, ne fanno anche qui un tratto caratteristico.
La differenza, tuttavia, la si coglie nel modo di approcciarsi con la scrittura: Bufalino, come lo stesso Stella ha riferito, è un cesellatore della parola, un orafo della lingua italiana; Stella, invece, adotta un linguaggio marcatamente allegorico, ravvisabile soprattutto nella poesia, a tratti forse anche scontato e prolisso, ma ciò trova la sua giustificazione nel fatto che il modo di scrivere di Stella risponde ad una necessità, l’immediatezza. E pur di raggiungerla, pur di non avere incertezze circa la sua destinazione verso il lettore, pur di colpire il lettore Stella preferisce essere prolisso ed allegoricamente scontato. Ritengo sia un pregio oggigiorno per i poeti e per gli scrittori in genere: la lettura e, soprattutto, la sua comprensione diventa fruibile per tutti e non solo per gli “addetti ai lavori”.
Tuttavia, il libro di Giovanni Stella pur essendo in commercio non è stato concepito per la vendita: è un libro che quasi “corrompe” il lettore, lo corteggia, soprattutto le opere inedite, fino a farlo uscire dal guscio morale che lo circonda. In questo caso una particolare predisposizione d’animo è importante se non addirittura necessariamente richiesta.


Foto di Leonardo MiucciLeonardo Miucci


LA MENNULARA

Copertina "La mennulara"C’è un bel romanzo da qualche settimana negli scaffali delle librerie italiane: si tratta de La mennulara di Simonetta Agnello Hornby, palermitana trapiantata a Londra, dove esercita la professione di avvocato in quel di Brixton. E’ una bella storia quella che narra questo romanzo, una storia ambientata in un paese della nostra isola nella prima metà del secolo scorso. Diciamo subito però che affermare che si tratta di un bel romanzo non significa sostenere anche che sia un capolavoro: è un’opera prima ed è, complessivamente, un lavoro di buona fattura anche se non del tutto privo di ingenuità. La storia narra retrospettivamente, con intelligente coralità e plurivocità e con una buona capacità di dar vita a personaggi credibili, la vicenda di una donna, Maria Rosaria Inzerillo detta La mennulara (voce dialettale che sta per raccoglitrice di mandorle), che da serva (da criata, in dialetto) rivela, prima e dopo la sua morte, prodigiose doti di amministratrice del patrimonio di terre e ricchezze della famiglia Alfallipe (piccola nobiltà di paese, gente inetta e comunque culturalmente inadeguata a reagire alle spinte della società industriale che sta irresistibilmente affermandosi sulla civiltà contadina), nonché una ferma, rigorosa e quasi feroce, capacità di far rispettare la propria dignità di donna. Il tutto intrecciato ad una storia di violenza e di mafia (una mafia all’antica però, ammesso sia mai esistita, fatta d’uomini d’onore per davvero…) e ad una segreta storia d’amore vista da una prospettiva femminile, motivi che rendono davvero avvincente la lettura del romanzo. Particolarmente gradevole è poi il tono complessivo di leggera ed affettuosa ironia che l’autrice non abbandona quasi mai, e giustamente, nel corso dell’intera narrazione. Un tono di diffusa leggerezza che si nota persino nell’impianto linguistico e sintattico della scrittura che presenta solo un leggero velo regionalistico (nella costruzione dei periodi ad esempio, oppure usando magari al posto di anche), ma non cade mai nel macchiettistico.
Cosa non convince allora? Non convince la continua sequela di allusioni, situazioni e suggestioni provenienti, evidentemente, dalla letteratura siciliana (anche -ne siamo convinti- malgrado la volontà stessa dell’autrice) che invadono letteralmente la narrazione (pagina per pagina, se non riga per riga) e rendono il romanzo prima ancora che l’opera prima della Agnello Hornby, una delle tante opere della letteratura siciliana: insomma, nihil sub sole novum , purtroppo. E niente nascerà di nuovo e artisticamente necessario fino a quando si continuerà a pensare alla Sicilia, quella antica e quella d’oggi, fondamentalmente come ad uno splendido topos letterario. Ci sembrano magistrali le pagine che narrano dell’amore, segreto, severo, violento e dignitoso, della Mennulara per il suo padroncino; tutto il resto però lo hanno raccontato già Verga, De Roberto, Sciascia, e poi Brancati, Ercole Patti, Bufalino, oggi Vincenzo Consolo ed ancora tanti altri.
Non è vietato scrivere della Sicilia, ci mancherebbe, ed anzi è sempre auspicabile che la letteratura si sforzi di usare la storia o le tante storie (nobili o miserrime, maschili o femminili) di questa terra per capire come va il mondo e cos’è l’uomo; ma o si trova una chiave che ne renda necessaria la scrittura o si incorre immancabilmente, e persino fatta salva l’assoluta onestà dell’autore, nel pericolo del già scritto, già letto, già detto. Diversamente, non c’è davvero ironia che tenga.


Paolo Randazzo

Simonetta Agnello Hornby, La mennulara, Milano 2010, pp. 224, € 7,50 acquista

<<Una vita>> di Giovanni Stella per lavarsi il cuore scrivendo
E’ una fotografia dall’alto di Avola e delle sue tradizioni, ma non solo, il nuovo libro di Giovanni Stella, edito dalle stamperie di Ciccio Urso, col titolo “Una Vita”. La tela sulla quale il letterato avolese dipinge fatti, personaggi e sensazioni è molto ampia, poiché abbraccia circa mezzo secolo di notti insonni, trascorse con le proprie emozioni e la “montblanc” nervosamente rigirata tra le dita.
Il “tomo”, quasi milletrecento linde pagine in bilico tra poesia, prosa e pittura, parte dalle prime opere giovanili del ’67, chiamate Miraggi, snodandosi fino alla completa maturità letteraria dei nostri giorni.
Nutritosi alla poesia di Jacques Prévert, da un lato, ed “all’amaro miele di Gesualdo Bufalino”, dall’altro, Giovanni Stella ha saputo fornire una unità d’insieme in un unico testo, raccontando non una sola vita, ma disegnandone molteplici. L’autore ha definito Avola come ”il posto delle fragole”, l’isola che alimenta la sua “isolitudine”, eppure non si è limitato ad essa. Dall’inchiostro nero della sua stilografica traspare l’amore per Parigi, Roma, ma soprattutto per i personaggi della Sicilia. Risaltano, ad ogni passo, le figure dei suoi più cari amici del luogo, come “Ciccio e Liliana Urso”, paragonati a dei novelli Renzo e Lucia all’interno dell’opera.
Copiose le informazioni di cronaca dei sentimenti fornite da “Una Vita” trascorsa a “lavarsi il cuore scrivendo”.
Un filo rosso unisce le sue prime liriche, permeate da un “senso dolente della vita” ed i quadri descrittivi dell’Osteria Margutta, dei “Momenti Parigini” e dei “Pomeriggi Veneziani”, in una serenità di fondo dell’autore, sempre proteso al ritratto del sogno e dell’inconscio. Poi di nuovo Bufalino, “quel comisano che gli era entrato nella testa e nel cuore”, rimanda ad una concezione negativa della vita, superata ancora una volta in momenti di serena contemplazione del territorio.
Le altre fasi della sua evoluzione passano attraverso titoli che rievocano la terra: “Datteri verdi”, “Gusci di Mandorle”, “Foglie secche”, “Lapilli”, “Cinquantesimo”, “L’Approdo Felice”, “Edera” e “Timo degli Iblei”, dove nella lirica intitolata “11 Settembre”, l’autore descrive lo sgretolamento “dell’effimera certezza di un occidente opulento”.
Nella sezione dedicata alla prosa, si fa subito sentire, tonante, la voce di Nunzio Bruno, il floridiano di “Cozzu ‘Zu Cola”, dai lunghi e ricciuti capelli che reclamano da tempo uno sciampo”.
Paragonato ad un “clochard” parigino con una limpida ricostruzione scenica della sua personalità artistica, della sua genialità mista ad improvvise rudezze e della sua “anarchia” indissolubilmente legata a momenti di intensa generosità, Nunzio, ama ripetere Giovanni Stella, è uno degli uomini di una Sicilia che lentamente scompare, ma che tuttavia “sopravvive in uomini come Ciccio Urso, Sebastiano Burgaretta e Vincenzo Consolo”.
Dopo “Le Sirene e l’Isola”, cospicua è la galleria di ritratti fornita da un altro periodo della prosa di Stella, e cioè “Amici Cari”.
Qui troviamo i ricordi paterni, ma anche le amicizie costruite durante anni di esercizio professionale, come quelle con Ettore Randazzo, “sempre in attesa di un volo in partenza” o del giurista Titta Madìa, senza dimenticare Piero Filloley, il letterato netino Salvatore Salemi, o il siracusano Corrado Piccione. La seconda parte del testo comprende gli scritti nominati “Il rigattiere e l’avventore”, il “Museo della Memoria”, le “Lettere” e la “Pulce al libro”, sempre catalizzatrici della attenzione del lettore, mediante uno stile efficace ed allo stesso tempo prezioso.
Da non mancare, quindi, questo appuntamento con la cultura del nostro tempo, che l’opera di Giovanni Stella ha cercato di affrescare, assecondando il suo “vizio impunito dello scrivere”, necessario, a suo avviso, per cercare la verità e per mentire, per persuadere e sedurre, per conoscersi e per sapere chi siamo, come amava ripetere Gesualdo Bufalino.


Foto di R. RubinoRoberto Rubino

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